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Boyhood

 

Dagli otto ai vent’anni: dodici anni per cogliere l’attimo

I genitori di Mason sono divorziati. Lui passa qualche weekend con il padre, che gli dà lezioni di vita più teoriche che pratiche. La madre torna a studiare per accedere a un lavoro più remunerativo, poi sposa un professore che si rivela debole, alcolista e violento e la costringe ad andarsene con i figli. Neanche il nuovo marito si rivelerà una scelta azzeccata. E, nonostante tutto, Mason cresce, fa le proprie esperienze, riesce ad andare avanti negli studi e, alla fine, a continuare a coltivare il proprio sogno di affermarsi come fotografo. E’ già maggiorenne e la vita continua.

Non è semplice inquadrare sinteticamente la carriera di Richard Linklater. Lo potremmo accreditare di una persistente ostinazione nella ricerca di un cinema sperimentale poco attento ai canoni narrativi tradizionali, ma lo potremmo anche considerare un soggetto anomalo che gradisce complicare le cose semplici per dare l’idea di cantare fuori del coro. E potrebbe anche essere un astuto intellettuale che cerca visibilità con esperimenti insoliti. Di certo è un tenace narratore di vicende quotidiane che cerca di tenere il più lontano possibile dalle convenzioni cinematografiche. Tutte queste possibilità si ripresentano puntuali in “Boyhood” (un po’ infanzia, un po’ adolescenza, sinteticamente fanciullezza), un film che ha il suo punto di forza nella volontà dell’autore di seguire la crescita di Mason Evans dagli otto ai vent’anni. Per fare questo Linklater non ha usato trucchi: ha scelto il soggetto, Ellar Coltrane, e dal 2002 al 2013 una volta l’anno ha riunito la stessa troupe filmando crescita e cambiamenti reali, sia in Ellar sia nei familiari sia nella società. L’esperimento, unico nel suo genere, contiene in sé sia l’originalità del metodo che l’astuzia di chi cerca di far parlare di sé. Bisogna dire, però, che nonostante scompensi ed episodi di valore molto differente, “Boyhood” ha il gran merito di porre domande cui non cerca di dare per forza risposte anche a prezzo di dire sciocchezze o di snocciolare teoremi filosofici da rotocalco. Onestamente, Linklater segue Ellar/Mason finendo soprattutto per chiedersi come abbia potuto mantenersi abbastanza equilibrato e sensato a dispetto delle traversie che ha dovuto affrontare. E arriva a una conclusione quieta, dolce, davvero filosofica e sostanzialmente triste: “Sai che tutti dicono sempre ‘cogli l’attimo’? Non lo so, a volte penso che sia il contrario, che sia l’attimo a cogliere noi. Sì, sì, lo so, è una costante. L’attimo è come… come se fosse sempre ora, no?”. Ecco, in questa ostinazione di voler riflettere su quella che abitualmente è chiamata normalità e nella sua volontà di metterla a confronto con i grandi avvenimenti, quel che accade in casa, nel quartiere, in città, nel paese e nel mondo, risiede questa volta la forza di Linklater, che non si è lasciato prendere la mano dal rischio della finzione e, pagando solo un piccolo pedaggio al melodramma, è riuscito a tirarsi fuori da ogni genere e a realizzare un film che, probabilmente, non assomiglia a niente di già visto.

Diversamente da quanto si potrebbe pensare, in “Boyhood” esiste un doppio piano narrativo: da una parte Ellar Coltrane che cresce, Ethan Hawke e Patricia Arquette che invecchiano, le invettive contro Bush, la campagna elettorale Obama vs. McCain, storia vera insomma; dall’altra le vicende familiari e comunque private, che saranno anche ispirate a fatti veri ma sono comunque il frutto di un lungo lavoro di sceneggiatura. In un certo senso “Boyhood” ha scommesso tutto sulla commistione tra realtà certificabile e finzione pura, affrontando anche la difficoltà non indifferente di trovare una continuità narrativa in un film le cui riprese sono durate 39 giorni nell’arco di dodici anni. Il risultato è un documento umano, sociale e politico che non sarebbe dispiaciuto a Robert Altman.

BOYHOOD (Id.) di Richard Linklater. Con Ellar Coltrane, Ethan Hawke, Patricia Arquette, Lorelei Linklater, Tamara Jolaine, Nick Krause. USA 2014; Drammatico; Colore

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