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“SAINT OMER” Una Medea senegalese,
mostro terribilmente umano

Di Lorenzo Pierazzi

Nel cuore della notte, accompagnata dal fragore delle onde del mare, una donna di origine senegalese sta camminando sul bagnasciuga. La ritroveremo successivamente nell’aula di un tribunale, condotta in manette dietro il banco degli imputati. L’accusa sarà l’aver abbandonato sulla spiaggia la figlia di quindici mesi e averne provocato la morte per annegamento nelle acque dell’Oceano. Un processo per infanticidio a cui la regista Alice Diop (documentarista all’esordio nel cinema di finzione) aveva assistito nel 2016 e che adesso porta sul grande schermo in Saint Omer, la pellicola Leone d’argento a Venezia (Gran premio della giuria) e candidata dalla Francia agli Oscar 2023.
Un’opera ambientata nell’omonima cittadina del dipartimento di Calais e capace di sferrare un potente pugno allo stomaco dello spettatore. Per oltre due ore, alternando un fuoco di fila di dichiarazioni e assordanti silenzi, intreccia in un abile gioco di specchi la vicenda dell’imputata Laurence Coly con quella di Rama, la professoressa di letteratura, anch’essa senegalese (così come Alice Diop) e assidua spettatrice del dibattimento processuale. Nel corso delle udienze, Laurence Coly è imperturbabile, una sfinge, non nega quanto le viene imputato, fa riferimento esplicito al malocchio che l’avrebbe guidata a compiere l’efferato delitto. Allo stesso tempo, Rama partecipa alla narrazione dei fatti con grande attenzione poiché la vicenda sarà lo spunto del suo prossimo libro, un saggio ispirato a Medea, la figura mitologica capace di uccidere deliberatamente i propri figli. Con il passare dei giorni, il coinvolgimento emotivo della scrittrice, a quanto narrato in tribunale, si fa sempre più opprimente, aggravato dalla sua gravidanza che la rende prigioniera di sinistri presagi.
Al di là delle apparenze, Saint Omer è qualcosa di più di un semplice legal drama. Assodati fin dall’inizio i fatti accaduti e le responsabilità dell’omicida, a poco a poco emerge come i veri imputati del processo siano i sempre più inquietanti abissi della psiche umana. Con Saint Omer, la regista francese ha voluto ridare voce agli ultimi, agli esclusi, portandoli alla nostra attenzione, ponendoci davanti alle loro tragedie, causate anche dalle nostre corresponsabilità collettive. Come quella dell’anziano padre naturale della bambina, un uomo che suscita soltanto disprezzo, incapace di esercitare la propria genitorialità, sempre assente nei passaggi importanti della fragile esistenza di Laurence. La messa in scena di Alice Diop è asciutta, essenziale: l’aula di tribunale è spoglia, disadorna; l’imputata, i testimoni e gli spettatori (compreso la stessa presidente del tribunale) sono vestiti in maniera dimessa, semplice; le inquadrature sono fisse oltre misura, con Laurence Coly ripresa quasi sempre frontale con la testa girata alla sua sinistra verso i giurati e con l’arringa finale dell’avvocato difensore affidata a un disturbante sguardo in macchina. A corredo di un tema delicato e inquietante, non mancano da parte di Alice Diop citazioni raffinate come le opere di Margherita Duras e la proiezione di una sequenza tratta dalla Medea di Pier Paolo Pasolini, mirabilmente interpretata da Maria Callas. Saint Omer non giudica, lasciando che siano i colpevolisti, sempre in agguato, a trarre frettolose conclusioni. Il film, però, è capace di ribadire con fermezza che il processo di sradicamento che vive Laurence, questo mostro terribilmente umano, è realmente accaduto e dovrebbe farci sentire tutti parte in causa.

SAINT OMER [Saint Omer] di Alice Diop. Con Kayije Kagame, Guslagie Malanga, Valérie Dréville, Aurélia Petit, Xavier Maly, Robert Canterella, Salimata Kamate Produzione: Srab Films, Minerva Pictures; Distribuzione: Minerva Pictures, Medusa Film; Francia, 2022 Drammatico; Colore Durata: 2h 2min

Fonte: Toscana Oggi, edizione del 18/12/2022

 

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